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Il fair play in campo e nella vita

In un articolo dedicato al fair play nello sport (pubblicato nel numero di luglio sulla rivista Psicologia Contemporanea), l’autore, Fulvio Scaparro, ci ricorda che nel 1992 fu stilato, a livello europeo, un importante Codice di etica sportiva in apertura del quale veniva chiarito che il significato di fair play non si esaurisce nel semplice rispetto delle regole. Il fair play è un concetto molto più complesso che coinvolge il nostro stesso modo di pensare e che include i valori del rispetto degli altri, dell’amicizia e dello spirito sportivo.


Purtroppo, come si sa, in questi anni, la situazione sui campi sportivi, soprattutto in ambito calcistico, si è andata deteriorando. Per arginare i fenomeni di violenza e di mancanza di sportività, da qualche mese la Lega Calcio ha reso obbligatorio in tutti gli stadi il cerimoniale dell’applauso ai calciatori avversari a fine partita prendendo a modello il rugby che lo pratica da lungo tempo. Ma per cambiare le cose nel calcio attuale sono sufficienti gli applausi rituali di fine partita?

Scaparro sostiene che il problema dovrebbe essere allargato ai contesti extrasportivi: la famiglia, la scuola, il lavoro, la società civile in generale. Se il fair play inteso innanzitutto come lealtà, correttezza e rispetto degli altri in tutte le nostre attività quotidiane non costituisce uno dei principi fondamentali dell’educazione dei ragazzi, come possiamo pensare che sui campi di gioco si possano rispettare gli avversari (anche quando ci hanno sconfitto) e le decisioni degli arbitri (anche quelle per noi svantaggiose)?

Riflettendo sulla funzione del gioco nello sviluppo psichico del bambino, Vygotskij, il celebre fondatore della scuola storico-culturale, aveva evidenziato come esso rappresenti uno dei paradossi della nostra esistenza. Nel gioco, infatti, il bambino, da un lato, fa ciò che desidera assecondando il proprio piacere, dall’altro, impara a sottomettersi alle regole, rinunciando a piaceri più immediati, e acquisisce consapevolezza che tali regole possono rafforzare il piacere stesso di giocare.

Ecco alcuni brani tratti dall’articolo:
(…) L’antitesi tra il fair play e la sua obbligatorietà può emergere con chiarezza da un episodio riportato di recente da Gianni Mura (la Repubblica, 8 marzo 2008).
Mura racconta di un incontro di calcio tra ragazzi di dodici anni appartenenti alle squadre dello Sporting Grassina e della Virtus Firenze. In tribuna alcuni genitori vengono alle mani. I due allenatori fermano il gioco e tutti i ragazzi escono dal campo tenendosi per mano. In tribuna la rissa continua, ma il gesto dei ragazzi ha una potenza straordinaria, proprio perché non è scritto da nessuna parte che se i genitori si picchiano sugli spalti, i figli debbano sospendere la partita e uscire dal campo tenendosi per mano.

E allora perché non rendere obbligatorio questo gesto ogni volta che si verificano simili manifestazioni di violenza? Perché, se questa iniziativa spontanea dei due allenatori, frutto della sensibilità di adulti che avvertono responsabilità educative, diventasse obbligatoria, forse si trasformerebbe in un rituale vuoto di significati e ipocrita. Si potrebbe obiettare che il fair play non è naturale e che quei ragazzi lasciati a se stessi avrebbero probabilmente imitato i loro genitori. È possibile, ma per loro fortuna non erano lasciati a se stessi. Qualcuno, contando sull’ascendente di cui gode come allenatore, si è preso la briga di invitarli ad opporre un gesto di pace a quelli di guerra.
Quel gesto non ha certo fatto miracoli, ma possiede comunque la forza del paradosso, costringe a riflettere: «scambiatevi un segno di pace mentre i vostri genitori si stanno picchiando». Così come paradossale è l’ingiunzione: «applaudite i vostri avversari anche se vi hanno sconfitto e perfino se non meritavate la sconfitta». (…)

E ancora:
(…) Le regole non scritte della sportività ci vengono trasmesse attraverso l’esempio delle persone accanto a cui cresciamo. Potrà capitarci di non rispettarle ma ci assumeremo la responsabilità della trasgressione e in quelle stesse regole ritroveremo le ragioni per recuperare i valori dello sport.
Significativa in questo senso, ci sembra una lettera apparsa recentemente in Rete, in cui un pallavolista chiede scusa a tutta la squadra per aver abbandonato il campo in un momento molto delicato della partita. Egli sottolinea con forza che con il suo comportamento è andato contro due principi fondamentali: la sacralità dell’arbitro e dell’avversario. Il gioco, infatti può svolgersi solo se si ha piena fiducia che l’arbitro faccia rispettare le regole condivise (i suoi errori, quindi, vanno considerati parte integrante del gioco). L’avversario, inoltre, è compagno necessario e insostituibile e condizione senza la quale giocare non sarebbe possibile e nessuno potrebbe divertirsi. “Il gioco è la norma che è divenuta affetto” scrive il pallavolista citando Vygotskij. Ammetto che non è frequente trovare un giocatore che abbia letto Il gioco e la sua funzione nello sviluppo psichico del bambino di Vygotskij. Certo è che lo ha capito bene, a dimostrazione che le vie del fair play sono infinite. (…)

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